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    Start-up europee: EDHEC, ESMT Berlin e POLIMI lanciano il primo barometer su pratiche responsabili

    (Teleborsa) – POLIMI Graduate School of Management presenta i risultati del primo European Responsible Start-up Practice Barometer, realizzato in collaborazione con INNOVA Europe. Fondata nel 2022 da EDHEC, ESMT Berlin e POLIMI Graduate School of Management, INNOVA Europe è una coalizione di dieci università europee impegnate nella creazione di un ecosistema di imprenditoria sostenibile in Europa, a supporto della transizione sociale e ambientale. Oggi più che mai, le start-up rivestono un ruolo chiave come catalizzatori di innovazione e trasformazione. POLIMI Graduate School of Management si è avvalsa dell’esperienza degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano e, in collaborazione con INNOVA, ha condotto un’indagine su 433 start-up europee per comprendere atteggiamenti, ostacoli e leve legate all’adozione di pratiche responsabili.Il barometer mira a fornire una valutazione concreta della volontà di implementare tali pratiche, dei metodi di attuazione e delle modalità di monitoraggio all’interno dell’ecosistema imprenditoriale europeo. Intende inoltre offrire a stakeholder come scuole, incubatori e fondi di investimento le informazioni necessarie per supportare meglio le start-up nell’affrontare le sfide della responsabilità d’impresa.Pratiche responsabili: un obiettivo di valore, ma non ancora una prioritàSebbene il 93% delle start-up intervistate dichiari di integrare pratiche responsabili nelle proprie operazioni, solo l’81% ha effettivamente intrapreso azioni in almeno uno dei quattro ambiti individuati: Ambiente, Sociale, Governance e Civico. A complemento dei tre tradizionali pilastri ESG, il barometer introduce il pilastro civico, che include iniziative che vanno oltre gli obiettivi strettamente aziendali, come investimenti nella comunità, sostegno a progetti educativi o sociali, partecipazione a iniziative di rigenerazione locale o innovazione sociale, e molto altro. Sociale: quasi 4 start-up su 5 hanno avviato iniziative sociali, in particolare a favore del benessere dei dipendenti (61%) e del marketing responsabile (63%). Governance: il 78% delle start-up adotta pratiche di buona governance. Ambiente: il 67% mette in atto pratiche ambientali responsabili. È l’ambito più frequentemente scelto come punto di partenza: tra le start-up impegnate in un solo pilastro, il 39% sceglie quello ambientale. Civico: solo il 51% delle start-up considera prioritario questo pilastro, e quasi un quarto afferma che non lo sarà nemmeno nel prossimo anno.La mancanza di risorse finanziarie (69%) e di tempo sufficiente (58%) rappresentano i principali ostacoli che impediscono alle start-up di intraprendere azioni responsabili, anche se le difficoltà variano da Paese a Paese. In Francia, la mancanza di tempo è citata più spesso (66%) rispetto a Germania (42%)e Italia (36%). In Italia, il 64% delle start-up afferma che le pratiche responsabili competono con altre priorità aziendali (contro il 25% in Francia e il 37% in Germania). In Germania, prevalgono i vincoli finanziari: il 79% cita risorse limitate come principale ostacolo, contro il 69% in Francia e il 43% in Italia.La maggior parte delle start-up ritiene che le pratiche responsabili siano utili, ma non ancora strategiche: il 42% riconosce un reale valore aggiunto, il 40% alcuni benefici, mentre il 18% non ne vede alcuno. Le pratiche responsabili, dunque, non vengono accantonate per mancanza di convinzione, ma perché considerate meno strategiche rispetto ad altre priorità in un contesto di risorse limitate.Misurare l’impatto: il punto deboleSebbene l’81% delle start-up abbia agito in almeno uno dei quattro ambiti della responsabilità d’impresa, solo il 28% utilizza indicatori di performance (KPI) per misurare l’impatto delle proprie azioni. Tuttavia, senza un sistema di monitoraggio, risulta difficile valutare i progressi, comunicare in modo trasparente o adeguare la strategia nel tempo. Il livello di monitoraggio varia in base alla maturità, al settore e ai pilastri considerati: il 64% delle start-up in fase di espansione monitora i propri KPI, contro il 27% di quelle in fase di prototipazione; il 46% delle start-up attive nel settore energia e ambiente e il 47% di quelle attive nell’ambito inclusione e impatto sociale monitorano gli indicatori – percentuali superiori alla media, ma ancora modeste per settori naturalmente orientati all’impatto; le categorie più monitorate sono impatto sociale e ambiente.Le principali difficoltà nel monitoraggio riguardano la mancanza di risorse finanziarie (27%), di tempo (25%), problemi di supporto interno (19%) e carenza di competenze specifiche (18%).La pressione degli stakeholder: un vero motore di cambiamentoIl numero di start-up che monitorano l’impatto delle proprie pratiche ESG raddoppia (40% contro 17%) quando subiscono la pressione del proprio ecosistema – clienti, investitori, incubatori, ecc. Tuttavia, questa pressione è ancora molto disomogenea: una start-up su due non è mai stata interrogata sulle proprie pratiche responsabili, segno di una dinamica ancora in fase di sviluppo più che di una tendenza ormai consolidata. Tra le start-up autofinanziate, il 38% ha ricevuto domande in merito, principalmente da clienti (17%), incubatori (14%) e partner commerciali (11%). Durante i round di finanziamento Series A, la pressione diventa la norma: l’83% delle start-up riceve domande sul tema, soprattutto da investitori a impatto (41%), investitori tradizionali (31%) e clienti (28%), che restano una forza trainante costante. Incubatori e investitori svolgono quindi un ruolo centrale nell’integrare sistematicamente il monitoraggio dell’impatto delle pratiche responsabili nei propri criteri di selezione, supporto e valutazione. Se questo approccio diventasse strutturale, avrebbe un effetto moltiplicatore sull’intero ecosistema, favorendo la trasparenza e l’allineamento dei team aziendali intorno a obiettivi condivisi e responsabili.”Questo studio evidenzia sia il potenziale che le attuali lacune nell’approccio delle start-up europee alla responsabilità. Molte mostrano un impegno autentico, ma tradurre le intenzioni in impatti misurabili resta una sfida importante. Come business school, ricopriamo un ruolo fondamentale nel fornire ai futuri imprenditori mentalità, competenze e strumenti per rendere la responsabilità un motore di innovazione e competitività a lungo termine” ha dichiarato Tommaso Agasisti, co-founder di INNOVA e associate dean for Institution and Public Administration di POLIMI Graduate School of Management.È proprio questo l’obiettivo della coalizione INNOVA Europe, che lavora per accelerare la trasformazione mobilitando l’intero ecosistema accademico dei partner. Le sue principali leve d’azione includono: il concorso INNOVA Europe, trampolino di lancio europeo che valorizza e sostiene i fondatori impegnati; il barometer, che ogni anno misura la dinamica dell’imprenditoria responsabile e mette in luce le tendenze su scala europea; la creazione di programmi di scambio e networking tra hub dell’innovazione per diffondere le migliori pratiche e incoraggiare la collaborazione europea. LEGGI TUTTO

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    Trasporti: biodiesel centrale per la transizione energetica

    (Teleborsa) – La filiera italiana del biodiesel è pronta a dare un contributo forte alla decarbonizzazione dei trasporti, ma chiede scelte chiare alla politica, a Roma come a Bruxelles. A Ecomondo, il Gruppo biodiesel di ASSITOL ha coinvolto i principali protagonisti dell’automotive in un dibattito, che ha evidenziato i benefici e le criticità dell’impiego dei biocarburanti nella transizione energetica.Per i produttori di biodiesel aderenti all’Associazione, è finito il tempo delle contrapposizioni ideologiche e della narrazione che vede una fonte rinnovabile contro l’altra. “La soluzione – ha spiegato Carlotta Trucillo, segretaria del gruppo e vicedirettore di ASSITOL – è il mix energetico, Diciamo basta alla demonizzazione e puntiamo sulla neutralità tecnologica. Il biodiesel può fare la differenza, soprattutto in Italia, che è all’avanguardia da decenni in questo campo, e può contare sul vantaggio di essere ben noto ai consumatori, perché è utilizzato tutti i giorni nei nostri motori diesel, i più diffusi sul mercato”.La lotta al cambiamento climatico – sottolinea il Gruppo biodiesel di ASSITOL in una nota – si deve basare su un approccio pragmatico, capace di fornire risposte efficienti, immediatamente disponibili ed economicamente sostenibili, alle necessità dell’industria e dei trasporti. Risposte che il biodiesel può dare, perché è un biocarburante rinnovabile da materie prime certificate sostenibili, come l’olio da cucina usato, i residui e i sottoprodotti da grassi animali. “La crisi ucraina e i problemi di approvvigionamento che ne sono derivati – ha sottolineato Trucillo – hanno dimostrato che non è possibile privilegiare un’unica fonte, rischiando di danneggiare interi settori produttivi, come nel caso dell’automotive”. Salvaguardare le filiere è un obiettivo fattibile: l’Europa è leader di mercato nella produzione di biocarburanti e, nei trasporti, il 77% dell’energia rinnovabile proviene proprio dai biofuel. Innegabili, poi, i benefici sull’ambiente, come la riduzione fino al 90% di CO2, l’alta biodegradabilità del biodiesel, l’assenza di polveri sottili (pm), e la sua sostenibilità certificata secondo i criteri previsti dalla Direttiva “RED”, a garanzia di tracciabilità e riduzione delle emissioni per tutto il suo ciclo di vita.Dal 2015, il settore – spiega la nota – ha visto diminuire gli investimenti, proprio per via dell’incertezza normativa e della graduale canalizzazione delle scelte politiche verso altre fonti rinnovabili. Eppure, sulle strade d’Europa, ogni anno, si consumano 14 milioni di tonnellate di biodiesel. A trainare il settore sono Germania, Olanda, Francia, Spagna e Italia, che nel complesso hanno una capacità produttiva di oltre 10 milioni di tonnellate. Per la segretaria del Gruppo biodiesel di ASSITOL, “le recenti aperture della Commissione Ue sui biocarburanti fanno ben sperare. Ci auguriamo che, a queste parole, segua la revisione delle regole. La filiera è pronta a dialogare e a fare massa critica”.Oggi il biodiesel è presente per la distribuzione in miscela (B7), ma non ancora in purezza (B100). Con alcuni adeguamenti tecnici, la rete sarebbe disponibile a breve, ma, a frenare in tal senso, sono l’incertezza normativa, i dubbi sulla sua immediata disponibilità tecnica. Lo ha chiarito Mauro Concezzi, responsabile nazionale di Cna-Fita, che rappresenta le piccole e medie imprese dell’autotrasporto. “Il biodiesel – ha spiegato Concezzi – può essere la via di fuga da un quadro reso complesso dai costi della transizione energetica. La strategia europea per la decarbonizzazione rischia di colpire un settore molto frammentato, che già oggi deve fronteggiare gli alti costi del carburante, e che non può aggiungere a questi oneri anche quelli legati al passaggio al veicolo elettrico”. Concezzi ha smentito alcuni luoghi comuni sull’autotrasporto: il 58% del parco mezzi complessivo (conto terzi e conto proprio) è rappresentato da Euro 4 e inferiori, il 42,16 sono Euro 5 e 6. Tuttavia, i veicoli euro 4 ed inferiori, riconducibili al solo contoterzi, sono molti di meno, il 25,50%. “Non è quindi vero, come molti sostengono, che utilizziamo veicoli vecchi. È vero, semmai, che ogni mezzo viaggia molto, per una media annua di 100mila km” ha detto Concezzi. L’intero fabbisogno complessivo del trasporto commerciale italiano è di 8 miliardi di tonnellate di gasolio. “L’obiettivo – ha aggiunto – è la sostituzione dei veicoli, ma i mezzi per finanziarla sono sempre più ridotti, creando una trappola soprattutto per le aziende con minori risorse. Vogliamo anche noi la sostenibilità, ma, come afferma il principio base dell’economia circolare, soddisfacendo le esigenze attuali senza compromettere le generazioni future”.Utilizzare in purezza il biodiesel è già possibile, grazie alla capacità di innovazione del nostro Made in Italy. Adriano Cordisco, ceo di Refuel Solutions, ha chiarito il ruolo strategico del biodiesel B100 nella decarbonizzazione dei trasporti e dell’industria. L’Italia, ha ricordato, produce 800mila tonnellate di biodiesel all’anno da materie prime sostenibili e dispone delle competenze necessarie per puntare su questo biocarburante. “Con milioni di mezzi diesel destinati a rimanere operativi nei prossimi decenni e un tasso di rinnovo annuo del 4%, attendere la sostituzione naturale dei veicoli significherebbe aspettare 25 anni – ha stigmatizzato Cordisco –. In Refuel Solutions, dal 2021 abbiamo scelto di fare ricerca sul biodiesel, unica soluzione per la decarbonizzazione del segmento più impattante del settore industriale. Soprattutto se paragonato ad altre fonti rinnovabili in termini di polveri sottili e di CO2, il biodiesel non ha rivali”. Basti pensare alla riduzione del 60% nell’emissione di particolato, da sempre indicato come l’agente inquinante più pericoloso delle nostre città, e alle proprietà lubrificanti del biodiesel, che di fatto allungano la vita al motore. “Anche per queste ragioni, in Europa il B100 è in crescita”, ha ribadito Cordisco.Proprio agendo da scienziati, i fondatori di ReFuel Solutions si sono chiesti che cosa, tecnicamente, bloccasse l’utilizzo di biodiesel puro. In risposta ai limiti tecnologici di compatibilità con i motori diesel, è nato BiodieselKit, un sistema brevettato internazionalmente che permette di impiegare il biodiesel in purezza su qualsiasi veicolo alimentato a diesel. La tecnologia, certificata secondo la Direttiva Macchine europea e che presto inizierà l’iter omologativo per lo stradale, è applicabile in qualsiasi ambito, dalle macchine agricole ai treni, dai cantieri alle navi. “Non parlerei di rivoluzione – ha rimarcato Cordisco – ma di saper cogliere le opportunità della filiera italiana e degli investimenti in tecnologia come il nostro. Quello che serve, ora, è la volontà di tutti nel valorizzare il biodiesel”.Anche sul fronte della distribuzione, sono urgenti scelte e strategie chiare. Per Letizia Pasqualini, responsabile transizione energetica, politiche Ue e rapporti interassociativi di Assopetroli-Assoenergia, “l’infrastruttura distributiva c’è, è capillare e diffusa, Tuttavia, accanto a tanti fattori positivi, esistono fattori che bloccano l’immissione in consumo degli LCF, i Low Carbon Fuel. Se si vuole accelerare sulla transizione energetica, occorre rimuovere questi fattori”. Il primo ostacolo alla decarbonizzazione è la contraddizione tra norme. L’Europa sembra remare in due direzioni: da un lato, con la Red III favorisce i biocarburanti e con la ETS2 ne raccomanda l’impiego nei trasporti, Dall’altro, con Regolamento sulle emissioni di CO2 LDV, ha deciso di basarsi esclusivamente sulle emissioni allo scarico, decretando lo stop al motore endotermico dal 2035. “Questo paradosso determina incertezza e rallentamento negli investimenti – ha osservato Pasqualini – esattamente il contrario di quello di cui abbiamo bisogno, vale a dire regole chiare e giuste”. Per la riconversione della rete distributiva italiana agli LCF, che, secondo uno studio condotto da RIE-Assopetroli-Assoenergia, dovrebbe avere un costo di circa 2 miliardi di euro, occorre istituire un fondo di transizione. Un investimento importante, ma che corrisponde a meno del 5% di quando sarebbe necessario stanziare per il passaggio della rete all’elettrico.Un altro dato interessante riguarda la fiscalità. “Nonostante riducano fino al 90% le emissioni di gas serra – ha spiegato Pasqualini –, gli LCF pagano le stesse tasse dei carburanti fossili. Servirebbe una fiscalità ambientale coerente, parametrata sulla performance ambientale dei carburanti. In sintesi, chi inquina meno, deve pagare meno”.Puntare sul biodiesel rappresenta una delle soluzioni più facili, immediate e convenienti dal punto di vista economico, anche in virtù della compatibilità tra questo biocarburante con la rete distributiva e i veicoli esistenti. “In Assopetroli-Assoenergia – ha aggiunto Pasqualini – siamo convinti che questa sia la strada giusta. Ma occorrono volontà politica, strategia e comunicazione chiara con il consumatore”.La transizione energetica è complessa e richiede soluzioni concrete e articolate. Lo ha detto chiaramente Fabrizia Vigo, direttrice affari istituzionali e legali di ANFIA – Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica. “Decarbonizzare è un obiettivo giusto e condiviso da tutti, ma ha costi che non possono essere scaricati solo sull’industria automobilistica – ha esordito Vigo – che nel nostro Paese, vale quasi il 6% del Pil, un fatturato di oltre 100 miliardi di fatturato, 280.000 addetti diretti e 1,28 milioni nella filiera allargata”. Ricordando che i target settoriali non riguardano quello che i costruttori producono, ma quello che vendono e guardando l’andamento dei dati di mercato dei veicoli elettrici, il traguardo delle emissioni zero stabilito per il 2035 appare irraggiungibile. “L’elettrico deve essere sviluppato, ma da solo non basta – ha ribadito Vigo –. Bisogna puntare alla neutralità tecnologica, riconoscendo il giusto valore ai carburanti rinnovabili come il biodiesel. La transizione ecologica ci impone di essere pragmatici”. Dati oggettivi alla mano, se n’è accorta anche la Commissione UE, che sembra sia più propensa a parlare di neutralità e di biocarburanti. Purtroppo il comparto perde competitività: CLEPA, la confederazione europea di settore, stima che, nel 2024, si siano già persi 100mila posti di lavoro.”Non si tratta di tornare indietro – ha concluso la direttrice affari istituzionali di ANFIA –. Ma è chiaro che dal 2019, anno del Green Deal, il mondo è cambiato. I target per il 2030 e il 2035, in queste condizioni, sono irraggiungibili. Oggi, più che mai, è indispensabile il riconoscimento normativo dei carburanti rinnovabili e dei veicoli alimentati esclusivamente con essi, le nostre filiere sono pronte. Non sempre costruttori e componentisti sono stati coesi di fronte alle scelte politiche europee, oggi sono tutti dalla stessa parte, l’augurio è che la politica tutta finalmente capisca che per un’Europa competitiva, la filiera automobilistica è imprescindibile”. LEGGI TUTTO

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    Manovra, Giorgetti: “Priorità conti in ordine. Spazi più contenuti che i passato”

    (Teleborsa) – “Il mantenimento di una politica di bilancio responsabile è un requisito fondamentale per il nostro Paese”. E’ quanto ribadito dal Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, nel corso dell’audizione alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato sulla Manovra. Giorgetti ha richiamato la “crescente credibilità conquistata dall’Italia” sui mercati internazionali, che va a beneficio delle istituzioni finanziarie e delle aziende del nostro Paese.Parlando della dimensione della manovra, Giorgetti ha ricordato che “nel nuovo quadro di governance europea, gli spazi di manovra sono più contenuti rispetto al passato” ed “ogni confronto della manovra 2026-28, pari ad un valore medio annuo di 18 miliardi, con le precedenti, per le sue dimensioni, non terrebbe in considerazione alcuni aspetti rilevanti”. Il Ministro ha ricordato che la Manovra “si inserisce in un quadro congiunturale incerto”, dove “l’attenzione sulle politiche bilancio perseguita dagli Stati è molto elevata” ed in cui risulta prioritario “garantire la sostenibilità del debito in linea con le regole di governance Ue”. Questo non vuol dire che il governo non abbia puntato a dare “risposte a esigenze profonde del Paese”. Lo ha fatto – ha ricordato – con il taglio delle aliquote Irpef per il ceto medio ed estendendo la platea di chi aveva beneficiato del cuneo fiscale, coinvolgendo il 32% del totale dei contribuenti, per un valore del beneficio medio atteso di 218 euro all’anno.A proposito della rottamazione delle cartelle, Giorgetti ha spiegato che il “costo teorico in termini di minori entrate” viene “compensato nel lungo termine”.Sul tema del contributo di banche e assicurazioni – circa 10 miliardi nel triennio – il Ministro ha affermato che “l’impatto è assorbibile alla luce della solidità e profittabilità del sistema bancario”.Per quanto concerne le spese per la Difesa, Giorgetti ha confermaot che “il governo agli inizi del prossimo anno finanziario informerà il Parlamento relativamente alle spese militari nel prossimo triennio e, qualora se ne ravvisasse la necessità”, l’Italia “potrebbe valutare l’attivazione della clausola nazionale di salvaguardia prevista per tali tipologie di spese”. Ricordando che il testo della Manovra “rappresenta la proposta condivisa e predisposta nell’ambito del Consiglio dei ministri”, Giorgetti ha spiegato che il Parlamento potrà avanzare degli emendamenti, volti a migliorarla, e su questo avrà “come di consueto, la massima collaborazione delle strutture tecniche” del MEF, ma occorre “ricordare che i nuovi parametri europei impongono un’attenta valutazione degli effetti finanziari delle proposte emendative alla luce del rispetto non solo dei saldi di finanza pubblica ma anche della traiettoria della spesa”. LEGGI TUTTO

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    Pacchetto vino Ue, Confagricoltura: “Soddisfazione per alcune misure. Molte ancora le criticità da superare”

    (Teleborsa) – Confagricoltura accoglie positivamente le misure a favore del comparto vitivinicolo approvate nel “Pacchetto vino” in commissione Agricoltura del Parlamento europeo. “Molte delle misure ipotizzate – commenta Confagricoltura in una nota– rappresentano un passo nella giusta direzione, anche se permangono aree di criticità. Un elemento di forte innovazione nel campo della gestione del potenziale, richiesto dall’Organizzazione agricola, è l’estensione da 3 a 8 anni della validità delle autorizzazioni per i reimpianti. Tale modifica offre ai viticoltori un margine temporale più ampio per pianificare gli investimenti, scegliendo il momento più opportuno in base all’andamento dei mercati, alle risorse disponibili e alle condizioni agronomiche”.Su proposta della Confederazione – prosegue la nota – è poi stata inserita la possibilità di innalzare fino all’80% la quota di contributo UE per gli investimenti destinati alla mitigazione e all’adattamento ai mutamenti climatici: “una misura che potrà favorire la sostenibilità e la modernizzazione del comparto”.”Ottima notizia – sottolinea Confagricoltura – il trasferimento del budget non speso per gli interventi settoriali negli anni successivi e il sostegno all’estensione dei programmi di promozione da 3 a 5 anni e alla possibilità di rinnovo. Mentre si segnalano forti criticità nelle nuove misure finanziabili con i fondi al settore vitivinicolo, come l’estirpazione e la distillazione di crisi, che non migliorano la qualità della produzione né incentivano la domanda. La Confederazione ritiene che i fondi OCM dovrebbero concentrarsi su interventi strategici e costruttivi come la ristrutturazione, la riconversione dei vigneti e la promozione del comparto vitivinicolo, evitando le misure emergenziali come appunto l’estirpazione e la distillazione di crisi”.Altro punto cruciale che Confagricoltura propone di modificare è la misura relativa ai fondi destinati all’enoturismo – che prevede beneficiari come associazioni e cooperative, ma esclude le aziende individuali – poiché – spiega la Confederazione – “rappresenta oggi un asset strategico per le aree rurali, in grado di generare valore economico, culturale e ambientale”.”Nel ringraziare la commissione Agricoltura del Parlamento europeo per il contributo, la Confederazione – conclude la nota – auspica che, nei prossimi passaggi istituzionali, ci sia spazio per un ulteriore margine di miglioramento del Pacchetto”.(Foto: pixid – Fotolia/Adobe Stock) LEGGI TUTTO

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    Ambiente, Urso: “Italia ha avuto ruolo spropositato per decisioni UE”

    (Teleborsa) – Secondo il Financial Times, “l’Italia ha avuto un ruolo spropositato” all’ultimo Consiglio europeo Ambiente. Lo ha ricordato il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, in occasione del 7º Business Forum Trilaterale tra Confindustria, BDI e MEDEF, le associazioni degli industriali tedeschi e francesi.Il titolare del MIMIT ha sottolineato che “è passata la posizione che l’Italia ha espresso, condivisa dalla stragrande maggioranza dei Paesi europei. Una posizione importante, finalmente pragmatica, flessibile, realistica e basata sul principio della neutralità tecnologica”.Al Consiglio Ambiente sono state accolte tutte le richieste dell’Italia: è stata innalzata dal 3% al 5% la possibilità di ricorso a crediti internazionali, è stata introdotta la possibilità di rivedere il regolamento sul clima ogni due anni e, per la prima volta, sono stati menzionati in maniera esplicita i biocarburanti. “Questo dimostra che l’Italia finalmente è tornata in campo nell’incidere nelle decisioni europee. E quello che voi avete fatto con la dichiarazione congiunta – ha affermato Urso rivolgendosi agli industriali – ci aiuta. Perché è bene che i governi sentano la voce, le posizioni delle imprese, che in maniera così significativa e coesa indicano la strada da percorrere. Una strada che, per quanto ci riguarda, deve essere necessariamente quella di coniugare al meglio, come indicato da Draghi, la sostenibilità ambientale con la sostenibilità industriale e con la sostenibilità sociale”.”Una strada condivisa con i grandi paesi industriali, che il nostro governo ha sin dall’inizio indicato, sia dando attuazione al Trattato del Quirinale con la Francia, sia realizzando il Piano d’azione con la Germania”, ha sottolineato Urso, aggiungendo che il governo si è impegnato dall’inizio “sui dossier centrali” per l’Europa, la revisione del CBAM e del ETS, che saranno all’ordine del giorno della Commissione il prossimo 10 dicembre. Urso ha citato il paper sull’auto, che conteneva due condizioni preliminari, entrambe accolte dalla Commissione: la prima riguarda la rimozione dell’ostacolo insormontabile che avrebbe obbligato le industrie europee ad acquistare titoli da società americane e cinesi, per evitare le multe già a partire da quest’anno; l’altra che puntava ad anticipare il Regolamento europeo sulla CO2 dal 2027 a quest’anno. “Ora bisogna agire e farlo in fretta, per ribadire che la revisione del regolamento debba riguardare sia i veicoli leggeri che i veicoli pesanti e per riaffermare quello che è stato già deciso ieri nel consiglio ambiente su neutralità tecnologica e biocarburanti. E’ necessario – ha ribadito il Ministro – per garantire alle imprese le risorse necessarie per gli investimenti, per accelerare sulla strada dell’elettrico, conservando l’autonomia strategica del nostro Continente”. LEGGI TUTTO

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    Auto aziendali: con una riforma fiscale basata sulle emissioni 4,3 miliardi per lo Stato entro il 2030

    (Teleborsa) – Riformare la fiscalità delle auto aziendali basandosi sulle emissioni potrebbe generare 4,3 miliardi di introiti per lo Stato e una riduzione delle emissioni di CO2 di oltre 2 milioni di tonnellate entro il 2030. Ecco cosa emerge da un nuovo studio di Transport & Environment (T&E), la principale organizzazione europea per la decarbonizzazione dei trasporti. Infatti, nonostante la recente riforma sui fringe benefit, l’Italia si conferma al primo posto in Europa per i sussidi alle auto aziendali inquinanti (endotermiche, ibride e ibride plug-in).Tra detrazioni IVA, ammortamento del costo del veicolo, bollo auto, agevolazioni sui carburanti e, appunto, tassazione delle auto concesse ai dipendenti in benefit in kind, il sistema fiscale italiano genera oltre 14 miliardi di euro all’anno di sussidi indiretti. In questo senso, la maggiore componente di sgravio è rappresentata dalla tassazione agevolata sulle auto aziendali in fringe benefit che prevede una tassazione limitata al 50% del valore convenzionale d’uso per le auto endotermiche e del 20% per le ibride plug-in (PHEV), che risultano ancora più favorite rispetto al passato, anche se analisi recenti attestano emissioni reali fino a cinque volte superiori rispetto a quelle dichiarate. E ciò nonostante, secondo quanto riportato nell’edizione appena pubblicata del Catalogo dei Sussidi Ambientalmente Dannosi (SAD) del MASE, proprio in virtù della recente riforma, a partire dal prossimo anno queste agevolazioni perderanno lo status di “sussidio dannoso”. Emissioni: il 90% dal traffico su strada – In Italia, i trasporti sono responsabili di oltre un quarto di tutte le emissioni di gas serra. Il traffico su strada rappresenta il 90% di queste emissioni e le auto ne producono due terzi. Il parco auto è tra i più vecchi d’Europa, molte città superano i limiti di qualità dell’aria e il mercato dei veicoli elettrici, nonostante una buona crescita percentuale nel 2025, è ancora esiguo. Per raggiungere gli obiettivi climatici – e sanare l’aria che respiriamo – serve un cambio di rotta rapido: utilizzare la leva fiscale per favorire la transizione delle flotte aziendali verso tecnologie pulite e sostenere la mobilità elettrica.Auto aziendali: 60% delle emissioni di CO2 – In Italia, nel 2024 le auto aziendali hanno rappresentato il 40% del mercato ma, percorrendo molta più strada, hanno prodotto quasi il 60% delle emissioni di CO2. Le aziende presentano caratteristiche che facilitano la transizione: sono finanziariamente più robuste, maggiormente attente al total cost of ownership dei veicoli, godono di consistenti agevolazioni fiscali e possono programmare meglio la logistica della loro mobilità, così da ottimizzarla rispetto alla distribuzione delle infrastrutture di ricarica; inoltre, possono installare infrastrutture di ricarica in sede e produrre energia rinnovabile. Dopo circa 3-4 anni, le auto aziendali finiscono sul mercato dell’usato, divenendo così un’opzione economicamente accessibile per la maggioranza dei consumatori (circa 8 su 10) che opta per veicoli di seconda mano.Emissioni: Ue incoraggia i Paesi a usare la leva fiscale – L’UE raccomanda all’Italia di utilizzare la fiscalità per promuovere veicoli puliti e sta preparando una normativa per la decarbonizzazione delle flotte, attesa entro la fine dell’anno. Esempi come quello del Belgio dimostrano che la leva fiscale funziona: una riforma del 2021, che dal 2026 consentirà di ammortizzare il costo dei soli veicoli a zero emissioni, ha fatto salire la percentuale di auto aziendali elettriche dal 8,8% nel 2021 al 41,1% nel 2024.Auto: l’Italia non collega tassazione e emissioni – “La riforma sui fringe benefit dello scorso anno è stata un primo passo, ma le nostre analisi mostrano che non basta. Non servono interventi parziali, ma una visione e un approccio sistemici. Sorprende che la tassazione agevolata sulle auto aziendali in fringe benefit verrà esclusa dal Catalogo dei SAD, nonostante le endotermiche e, ancor più, le ibride plug-in continuino a beneficiare di un regime fiscale favorevole – afferma Esther Marchetti, Clean Transport Advocacy Manager di T&E Italia –. L’Italia, con una normativa disorganica di esenzioni, continua a sussidiare indirettamente le auto inquinanti ed è tra i pochissimi paesi europei a non collegare la tassazione dell’auto alle emissioni. Tuttavia, la fiscalità è uno degli strumenti più efficaci per orientare consumatori e imprese verso veicoli più efficienti, silenziosi e alimentabili con energia rinnovabile. Per questo va utilizzata al meglio, anche a massima garanzia della salute dei cittadini”.Proposta T&E: tassazione legata alle emissioni di CO2 – T&E propone una riforma strutturale e progressiva, applicabile solo alle nuove immatricolazioni e basata su un sistema di bonus-malus legato alle emissioni di CO2, che includa: tassazione dei veicoli concessi in fringe benefit, detraibilità dell’IVA, deducibilità del costo del veicolo e l’introduzione di una tassa di immatricolazione unica, parametrata a emissioni e costo del veicolo. La proposta prevede un iniziale aumento dei benefici per le tecnologie zero emissioni e una contestuale riduzione di quelli per le endotermiche, fino al loro azzeramento. Nel tempo, la pressione fiscale aumenterebbe anche sulle auto meno emissive, per evitare distorsioni e mancato gettito.Riforma fiscale: +29% di auto elettriche, -6% import di petrolio – Secondo il modello di T&E, tra il 2026 e il 2030 questa riforma non solo genererebbe un saldo positivo di 4,3 miliardi di euro per lo Stato, riducendo le emissioni climalteranti, ma taglierebbe del 6% le importazioni di petrolio del settore trasporti e porterebbe circa 235mila auto elettriche in più in circolazione, pari a un incremento del 29%.Reinvestire le risorse contro la “transport poverty” – “Una riforma di questo tipo garantirebbe stabilità normativa e chiarezza per gli investimenti, supportando le imprese nella pianificazione della decarbonizzazione delle flotte – conclude Marchetti –. Se le risorse generate venissero reinvestite nella transizione, si potrebbero incentivare le infrastrutture di ricarica aziendali e sfruttare il potenziale di accumulo delle batterie. Destinare parte di queste risorse a programmi di social leasing, trasporto pubblico, car sharing, piani di rottamazione e incentivi alla mobilità attiva permetterebbe di supportare anche le fasce di popolazione più esposte alla transport poverty. Questo, insieme alla creazione rapida di un mercato dell’usato elettrico accessibile, renderebbe la transizione più equa e sostenibile per tutte le persone”. LEGGI TUTTO

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    UpB: economia Italia cresce poco, verso PIL sotto livello Ue

    (Teleborsa) – La Manovra si inserisce in un contesto che continua a essere piuttosto complesso, c’è una prospettiva di rallentamento della congiuntura internazionale che influenza le prospettive di crescita per l’economia italiana, che sta crescendo relativamente poco: il terzo trimestre è sostanzialmente stabile e le prospettive per quest’anno sono di un acquisito allo 0,5%, quindi una crescita che è al di sotto del livello medio nell’Ue”. Lo ha detto la presidente dell’Upb Lilia Cavallari in audizione sulla manovra alle commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato. “Le previsioni crescita su cui si innesta la manovra sono state validate dall’Upb che ha sottolineato come i rischi siano prevalentemente orientati al ribasso”, ha aggiunto.”Secondo le stime effettuate con il modello di simulazione dell’UPB la riduzione di aliquota riguarderà poco più del 30 per cento dei contribuenti (circa 13 milioni che si collocano oltre la soglia di 28.000 euro di reddito) con un minor gettito Irpef di circa 2,7 miliardi”. “Il 50 per cento del risparmio d’imposta affluisce ai contribuenti con reddito superiore ai 48.000 euro che rappresentano l’8 per cento del totale – aggiunge -. Gli effetti variano significativamente fra contribuenti a seconda del loro reddito prevalente. Nell’ambito dei lavoratori dipendenti, il beneficio medio è pari a 408 euro per i dirigenti e si riduce a 123 e 23 euro, rispettivamente, per impiegati e operai. Per i lavoratori autonomi in tassazione ordinaria la riduzione media è di 124 euro e per i pensionati di 55 euro. In termini di aliquota media la riduzione risulta compresa fra lo 0,1 punti percentuali degli operai e 0,4 di impiegati e lavoratori autonomi in tassazione ordinaria”. “La sterilizzazione della riduzione delle aliquote per i redditi più elevati produrrà effetti parziali dato che solo il 32 per cento dei contribuenti con reddito superiore ai 200.000 euro (58.000 contribuenti) ha detrazioni aggredibili che non siano state già tagliate da precedenti interventi normativi – ha concluso -. Per tale platea il taglio medio effettivo ammonta a 188 euro, significativamente inferiore al risparmio di 440 euro derivante dalla riforma”. La legge di bilancio “conferma la linea prudente di consolidamento progressivo dei conti pubblici in corerenza con gli impegni assunti con il Piano strutturale di bilancio” che “implica spazi di manovra ristretti” ma anche “una buona probabilità di uscire dalla procedura di avanzo eccessivo già nel 2026”.”Significative coperture dal lato delle uscite riguardano riduzioni di spesa dei Ministeri, per le quali prevale ancora la presenza di ‘tagli lineari’ piuttosto che uno sforzo di razionalizzazione delle spese che sia il risultato delle attività di valutazione delle politiche pubbliche”Quanto alla detassazione dei rinnovi contrattuali prevista dalla legge di bilancio “presenta criticità” e “determina significative disparità di trattamento” tra contribuenti. “L’intervento determina un differimento temporale del prelievo più elevato, senza risolverlo strutturalmente” ricorda l’UPB, e “determina significative disparità di trattamento poiché esclude dalla platea dei beneficiari contribuenti in situazioni reddituali analoghe”. “Tali criticità – secondo l’UPB – sollevano dubbi sull’opportunità di affidare a interventi a hoc temporanei la correzione di criticità strutturali dell’imposta sul reddito derivanti dall’aver affidato al sistema fiscale obiettivi di sostegno ai redditi che sarebbero più efficacemente perseguiti con altri istituti”. La platea di quanti avrebbero beneficio dall’imposta sostitutiva al 5 per cento sarebbe, secondo le simulazioni dell’UPB, di circa 2,1 milioni di lavoratori, con un risparmio d’imposta medio per contribuente pari a circa 208 euro. LEGGI TUTTO

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    Caro-energia, Confartigianato: “Le piccole imprese pagano per i grandi: 1,9 mld per agevolazioni in bollette energivori”

    (Teleborsa) – Il caro-energia continua a pesare in modo sproporzionato sulle piccole imprese italiane. A denunciarlo è Confartigianato, che evidenzia come il sistema di formazione dei prezzi e la struttura degli oneri di sistema stiano generando gravi squilibri competitivi nel tessuto produttivo nazionale.In Italia, l’80% delle imprese manifatturiere ha meno di nove dipendenti. Sono proprio queste le aziende che pagano di più l’energia elettrica: 184 euro per megawattora, contro una media generale di 137 euro. Inoltre, devono sostenere oneri di sistema che servono per finanziare le agevolazioni nelle bollette delle grandi aziende energivore. Così, ad esempio, una piccola impresa tessile paga 40-50 euro/MWh di oneri in bolletta, mentre una grande impresa dello stesso settore ne paga appena 3-5. Nel solo 2024, questo meccanismo ha spostato 1,9 miliardi di euro da chi consuma meno a chi consuma di più.Inoltre, i piccoli imprenditori finanziano, attraverso la bolletta, il 40% degli investimenti in energie rinnovabili. Ma, nonostante oltre 140 miliardi di euro destinati, in tredici anni, alle rinnovabili, con una copertura del 41% della produzione nazionale, i prezzi in Italia restano ben maggiori rispetto al resto d’Europa.”Se vogliamo mantenere competitivo il nostro sistema produttivo – sostiene il presidente di Confartigianato Marco Granelli – è necessario ristabilire equilibrio ed equità nel costo dell’energia pagato dalle imprese. Oggi, grazie al Sistema Informativo Integrato, possiamo distinguere le tipologie di aziende e intervenire in modo mirato”.Confartigianato propone un intervento strutturale per eliminare le discriminazioni tra categorie imprenditoriali, come il trasferimento dei costi per le agevolazioni agli energivori dalle bollette aziendali ai proventi derivanti dalle aste di CO2. Tale misura, adottata nel 2022, aveva permesso di ridurre significativamente il peso degli oneri per le imprese. Secondo Confartigianato, per rendere strutturale la diminuzione del peso della bolletta sulle imprese artigiane e manifatturiere in bassa e media tensione con consumi inferiori a un milione di kWh l’anno, abbassando gli oneri da 53-44 euro/MWh a 30 euro/MWh, servirebbero circa 1,7 miliardi di euro. Risorse che potrebbero essere rese disponibili, poiché soltanto nel primo trimestre 2025, il GSE ha trasferito 600 milioni di euro di proventi dalle aste di CO2.Confartigianato chiede anche di sostenere l’attività di ARERA per vigilare sui mercati all’ingrosso, dove si sono registrati possibili rincari medi di 9 euro/MWh nel 2023 e di 8 euro/MWh nel 2024, dovuti a comportamenti di trattenimento di capacità da parte di alcuni operatori.”Servono regole chiare, uguali per tutti e rispettate da tutti — aggiunge Granelli — Solo un’Autorità indipendente e forte può garantire equilibrio e tutelare imprese e consumatori. Le piccole imprese non possono essere considerate una sorta di bancomat e la bolletta non può diventare una cartella esattoriale dove si riversano costi impropri come quelli delle concessioni per la distribuzione elettrica. Chi dice di voler sostenere i piccoli imprenditori lo dimostri con i fatti, opponendosi a chi li considera una base imponibile su cui spalmare costi e non una risorsa essenziale per il Paese”. LEGGI TUTTO