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Coronavirus, ISTAT: “Oltre il 50% di fatturato in meno per 4 imprese su 10”

(Teleborsa) – Oltre il 70% delle imprese, che rappresentano il 73,7% dell’occupazione, dichiara una riduzione del fatturato nel bimestre marzo-aprile 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019. Nel 41,4% dei casi il fatturato si è più che dimezzato, nel 27,1% si è ridotto tra il 10% e il 50% e nel 3% dei casi meno del 10%. Solo nell’8,9% delle imprese il valore del fatturato è invece rimasto stabile. È quanto emerge Rapporto Istat su “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19”.

Il 14,6% delle imprese – si legge nel Rapporto – dichiara di non avere registrato alcun fatturato, ma la quota è molto più elevata tra quelle attive nell’ambito delle attività sportive, di intrattenimento e divertimento (58,2%), tra le agenzie di viaggio e i tour operator (57,1%) e i servizi di alloggio (50,9%). Seguono le imprese che si dedicano ad attività creative e artistiche (42,5%), le case da gioco (36,6%) e ai servizi di ristorazione (35,4%). Inoltre, non hanno registrato fatturato un quarto delle imprese degli altri servizi alla persona (28,9%), delle attività culturali (28,7%), dell’istruzione (26,3%) e dell’assistenza sociale non residenziale (24,8%). Il fatturato del bimestre marzo-aprile 2020 è aumentato soltanto per il 5% delle imprese (che pesano per il 7,5% in termini di occupazione), di cui l’1,4% per meno del 10% e il 3,6% per oltre il 10%. Si tratta di circa 50mila imprese, nella maggior parte dei casi appartenenti al settore del commercio (24 mila), tra le quali la quota di imprese con un fatturato in aumento sale al 9,8%. Negli altri settori di attività l’incidenza è più contenuta, con l’unica eccezione riscontrata per il comparto dell’industria farmaceutica (28,0% di imprese con vendite in crescita), delle telecomunicazioni (23,8%) e della chimica (18,6%).

Differenze significative si rilevano osservando la dimensione aziendale: il 58,5% delle micro imprese dichiara una perdita superiore al 50% o alcun fatturato rispetto al 48,5% delle piccole, al 33,4% delle medie e al 27,4% delle grandi, tra le quali la riduzione si attesta più frequentemente tra il 10% e il 50%. Le motivazioni alla base della riduzione del fatturato sono per il 45,9% riconducibili alla riduzione delle settimane lavorative dovute alla chiusura, per il 50,5% al calo della domanda, per l’8,3% a difficoltà di approvvigionamento e per il 5,5% a un calo della produttività dovuta alle nuove condizioni lavorative. A livello regionale Valle d’Aosta (64,1%) e provincia autonoma di Trento (60,2%) sono i territori con una maggiore incidenza di imprese che non hanno fatturato o dichiarano una riduzione superiore al 50%. Significativo il dato anche per Marche (59,4%), Abruzzo (58,9) e Sardegna (58,8%), Toscana (58,5%) e Calabria (58,4%).

UTILIZZO CIG PER OLTRE 70% IMPRESE – Per fronteggiare gli effetti dell’epidemia Covid-19 la tipologia di misure cui le imprese hanno fatto maggior ricorso è quella della Cassa integrazione guadagni (Cig) o di strumenti analoghi come il Fondo integrazione salariale (Fis). Anche grazie all’allargamento della platea di possibili fruitori, tali misure sono state utilizzate da oltre il 70,2% delle aziende con almeno 3 addetti, con poche differenze tra classi dimensionali. Altre misure di gestione del personale – rileva l’Istat – hanno avuto una applicazione più circoscritta: l’obbligo delle ferie per i dipendenti (o iniziative temporanee per ridurre il costo del lavoro) e la riduzione delle ore o dei turni di lavoro sono state indicate rispettivamente dal 35,9 e dal 34,4% delle imprese; l’introduzione o diffusione del lavoro a distanza (smart working) ha coinvolto quasi un quarto delle unità mentre il rinvio delle assunzioni previste, la rimodulazione dei giorni di lavoro e la formazione aggiuntiva dei lavoratori hanno riguardato una percentuale di imprese compresa tra il 10 e il 13,5%. Oltre al lavoro agile, altre misure presentano una relazione positiva con la dimensione aziendale. È il caso dell’obbligo di fruizione delle ferie, del congelamento delle assunzioni previste e, in misura più contenuta, della formazione del personale.

MANCANZA LIQUIDITÀ PER SPESE 2020 – Oltre la metà delle imprese (51,5%, con un’occupazione pari al 37,8% del totale) prevede una mancanza di liquidità per far fronte alle spese che si presenteranno fino alla fine del 2020 e il 38,0% (27,1% il loro peso occupazionale) segnala rischi operativi e di sostenibilità della propria attività. La mancanza di liquidità è tanto più diffusa quanto minore è la dimensione aziendale, interessata anche da una dinamica più negativa del fatturato. Dal punto di vista settoriale è più accentuata per le imprese delle costruzioni, soprattutto se piccole (che rappresentano il 56,4% del totale) e per le micro imprese dell’industria in senso stretto (56,0%). Nell’ambito della manifattura, particolarmente colpite sono le imprese di alcuni settori tipici del Made in Italy, su tutti la fabbricazione di mobili (64,5%), l’industria del legno (64,2%) e le confezioni di abbigliamento (62,6%). Dal punto di vista geografico, ciò si traduce in una spiccata mancanza di liquidità soprattutto nelle regioni del Centro Italia (il 55,5% delle imprese, +4 punti percentuali rispetto alla media nazionale), ma sono presenti situazioni di forte disagio in alcune regioni del Mezzogiorno, come la Calabria (57,4%) e la Sardegna (56,1%). Anche il rischio operativo e di sostenibilità dell’attività è più frequente nelle classi dimensionali più piccole: particolarmente a rischio sono le micro imprese (39,9%) attive in altri servizi (in cui arrivano al 47,4%, con forte peso dell’assistenza sociale non residenziale).

RIDUZIONE DOMANDA – Nei prossimi mesi quasi un’impresa su tre si aspetta una contrazione del fatturato a causa della riduzione della domanda locale e nazionale (rispettivamente il 32,1% e il 30,3%). All’andamento locale della domanda sono maggiormente sensibili le micro imprese e quelle attive nei servizi, specialmente nel Mezzogiorno. Il livello nazionale interessa invece di più le imprese di dimensione grande e media e le unità produttive nell’industria in senso stretto (spicca l’industria delle bevande, 81,4%) e, da un punto di vista geografico, quelle del Nord-est (Provincia autonoma di Trento 53,4%). La riduzione della domanda dall’estero (14,9%) colpisce invece di più le imprese di dimensione media e grande (rispettivamente 34,9% e 33,8%) attive nell’industria in senso stretto (55,4% e 58,3%). Una impresa su cinque – conclude il Rapporto – prevede un aumento dei prezzi delle materie prime, dei semilavorati o degli input intermedi, con marcati effetti settoriali: spiccano costruzioni (29,6%) e industria in senso stretto (28,9%), soprattutto la fabbricazione di prodotti chimici (45,4%). Solo il 12,6% delle imprese – che assorbono il 16,5% dell’occupazione – non ipotizza effetti particolari sull’attività, che, dichiarano, proseguirà normalmente. Si tratta in prevalenza di grandi (21,2%) e medie (17,6%) imprese principalmente attive nelle costruzioni e commercio.


Fonte: http://news.teleborsa.it/NewsFeed.ashx

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