Come noto il governo M5s-Pd ha confermato nella Nota di Aggiornamento al DEF la finestra triennale per la Quota 100, che resterà con lo schema deciso dal governo precedente fino al 2021. Tuttavia, al termine del periodo in oggetto, in assenza di un’armonizzazione c’è il rischio concreto che gli esclusi da Quota 100 si ritrovino con la necessità di cinque o sei anni aggiuntivi di contributi per accedere alla pensione.
Il primo a segnalare che l’uscita dalla sperimentazione di Quota 10 non sarebbe stata indolore fu stato il senatore del Pd Tommaso Nannicini, ai banchi dell’opposizione allorché fu votata in aula. Ora lo spettro si ripresenta, con casi limite paradossali. Esempio concreto simulato da Il Sole 24 Ore: due lavoratori hanno lavorato 38 anni nella stessa azienda, il primo è nato nel dicembre del 1959 e il secondo nel gennaio del 1960. Il primo andrà in pensione (se lo vorrà) a 62 anni, mentre il secondo dovrà optare tra un pensionamento anticipato con 42 anni e 10 mesi nel 2026 o il pensionamento di vecchiaia con 67 anni e nove mesi, addirittura nel 2029, sebbene la sua pensione sarà più ricca di circa il 22%.
Nella NADEF, al momento, si fa menzione soltanto del prolungamento di Opzione Donna e dell’Ape sociale, oltre ad un generico impegno sull’ipotesi di una pensione di garanzia per i giovani. Tra il 2021 e il 2022 la spesa pensionistica, anche per effetto di “Quota 100”, sfonderà la soglia psicologica dei 300 miliardi, segnala sempre Il Sole 24 Ore.
Alla fine del 2021, peraltro, scade pure l’attuale schema di indicizzazione delle pensioni all’inflazione, che prevede 7 fasce anziché 5 e cambia marginalmente le percentuali di adeguamento ai prezzi (nel triennio questa misura, che tocca 5 milioni di pensionati, ha garantito risparmi per 3,6 miliardi). Anche in questo caso tornare al vecchio regime farà risalire la spesa.