(Teleborsa) – Il settore del fintech è stato sulla cresta dell’onda per quasi un decennio, con i tassi di interesse a zero che hanno favorito miliardi di finanziamenti da parte del venture capital nei confronti di società che promettevano di rivoluzionare il settore bancario e dei pagamenti, portando a valutazioni da capogiro per i nomi più in vista, come N26 e Revolut. L’ondata di innovazione, entusiasmo e finanziamenti ha coinvolto anche un insieme eterogeneo di banche, le cosiddette challenger bank, ovvero istituti piccoli e nati da poco, che mirano a competere direttamente – o sfidare – le banche tradizionali utilizzando strumenti tecnologici e processi innovativi. Ora però l’abbondanza di finanziamenti si è fermata a causa dell’aumento dei tassi di interesse da parte delle banche centrali e dei dubbi su alcuni dei modelli di business di queste banche sfidanti, che sebbene abbiano attratto milioni di clienti spesso faticano a realizzare un profitto.
Segnali negativi per il settore sono arrivati a inizio ottobre, quando la britannica , nata nel 2010 e focalizzata sulla clientela retail, è stata costretta a un aumento di capitale e a un rifinanziamento del debito. L’operazione è arrivata dopo una serie di battute d’arresto negli ultimi anni, tra cui errori contabili, allontanamenti della leadership e ritardata approvazione normativa per importanti sgravi patrimoniali.
La gestione del capitale e del funding è un tema sensibile non solo per le challenger bank in difficoltà, ma anche per gli istituti in crescita che si trovano ad affrontare un ambiente macroeconomico e di politica monetaria totalmente diverso da quello di pochi mesi fa.
Banca CF+, challenger bank italiana specializzata in soluzioni di finanziamento alle imprese in situazioni performing o re-performing, ha collocato il mese scorso la sua prima emissione obbligazionaria, un Tier 2 del valore nominale di 25 milioni di euro, con scadenza 2033 e cedola annuale del 14,5%. L’AD Iacopo De Francisco sottolinea che “investitori professionali e qualificati hanno evidentemente apprezzato il nostro progetto” e ritiene che la cedola offerta “sia coerente con il mercato di riferimento, considerando sia il livello assoluto dei tassi di interesse che la complessità del contesto macroeconomico e internazionale”.
De Francisco evidenzia comunque che la competizione con le grandi banche “ha un costo, poiché le challenger bank non godono delle stesse condizioni di funding del sistema bancario tradizionale, caratterizzato da elevato livello di resilienza della raccolta retail a costi non sempre agganciati alle dinamiche di mercato”. Per colmare questo gap, secondo il banchiere, occorre offrire “anche sul fronte della raccolta diversificazione, personalizzazione, velocità, convenienza economica – in una parola una user experience molto positiva – che con il tempo consenta anche al depositante on line di “affezionarsi” alla banca, sposarne il progetto e di non concentrarsi solo sul rendimento offerto”.
Quello del pricing è un elemento importante, perché i clienti retail cercano prodotti meglio remunerati e il numero di opzioni è aumentato dopo la decisa stretta monetaria della BCE. Secondo un recente rapporto di Scope Ratings, le banche europee si trovano ad affrontare dinamiche “dirompenti” nella raccolta retail e una cattiva gestione del nuovo scenario potrebbe avere “implicazioni strutturali per la redditività e l’asset-liability management, tra cui l’aumento dei rapporti prestiti/depositi e una maggiore dipendenza dai finanziamenti wholesale”.
“Il mercato è profondamente cambiato negli ultimi 18 mesi, anche perché abbiamo attraversato un contesto finanziario in cui la liquidità era abbondante, a costo zero (i tassi ufficiali sono stati negativi per lungo tempo), e nel quale molti istituti bancari quasi rifiutavano il deposito di liquidità da parte dei clienti – fa notare Stefano Aldrovandi, Responsabile BU Core Banking e BU Wealth Management di Cherry Bank – Oggi la liquidità è tornata ad essere una ricchezza, soprattutto se stabile nel tempo“.
“La raccolta stabile è oggi premiante e una delle principali fonti per stabilizzarla sono i conti deposito vincolati”, aggiunge il manager di Cherry Bank, che non si descrive come una challenger bank ed è attiva in diverse nicchie di mercato (NPL, Crediti fiscali, Special Situation e Alternative Investment), ma anche in settori più tradizionali come il Corporate ed il Wealth Management.
Definire chiaramente una challenger bank non è infatti facile, perché si potrebbe fare riferimento a banche piccole (che hanno filiali e mirano a sfidare ampiamente le grandi banche sul loro territorio fornendo servizi e/o prodotti migliori a gruppi di clienti specifici o in generale), banche digitali (che mirano a coinvolgere i clienti digitalmente, scommettendo sui cambiamenti nel comportamento dei clienti lontano dalle filiali verso servizi più rapidi ed efficienti) o banche specializzate (che spesso non hanno filiali e cercano di rivolgersi a particolari gruppi di clienti o prodotti che sono meno al centro dell’attenzione delle banche tradizionali). “Sono convinto che gestire una challenger bank possa essere, da un lato, facile, non avendo alle spalle il peso di una legacy, dall’altra più difficile, poiché occorre creare una presenza sul mercato – afferma De Francisco – In un momento di mercato discontinuo come quello attuale, però, gli attaccanti riescono ad avere spazio“.
L’attacco di quote di mercato delle banche tradizionali entrerà presto in una nuova fase, successiva a quella dei tassi zero e dei tassi alti, ovvero quella in cui un costo del denaro elevato ha un effetto significativo sul rallentamento dell’economia. “Al momento, il ritrovato scenario di tassi ufficiali nell’intorno del 4% è stato un boost per il conto economico delle banche avendo fatto lievitare gli interessi attivi e, in maniera meno che proporzionale, quelli passivi – afferma Aldrovandi – Questo effetto placebo ha però dei riflessi che si vedranno nei prossimi mesi, se e quando l’annunciata crisi economica inizierà a mordere il freno e le imprese strutturalmente più deboli non riusciranno a superare le difficoltà. Inoltre, nelle nostre aspettative c’è anche la crescita del costo della raccolta tradizionale per via dell’effetto scarsità di liquidità e, di conseguenza, della concorrenza”.
Questo nuovo scenario andrà anche affrontato senza la prospettiva di nuove iniezioni di capitale da parte di fondi e venture capital, i cui investimenti in ambito financial e fintech si sono asciugati dopo anni di abbondanza. “In Italia il fintech negli ultimi anni è passato dal non essere un settore di riferimento all’essere il primo settore in termini di investimenti, con un trend crescente – spiega Giovanni Fusaro, responsabile area Venture Capital di AIFI e project manager per il Venture Capital Monitor (osservatorio di LIUC Business School e AIFI) – Nel 2023 c’è stato un rallentamento generalizzato, in realtà partito a fine 2022, sugli investimenti venture. Il tema è che i deal più grandi, anche nel fintech, sono stati fatti da fondi internazionali, e il loro rallentamento globale si è riflesso anche in Italia”.
Secondo i dati del Venture Capital Monitor, gli investimenti di VC in startup fintech italiane sono crollati a 14 in numero e 81 milioni di euro in valore nei primi 9 mesi del 2023, rispetto ai 34 e 624 milioni di euro per l’intero 2022 e ai 37 e 218 milioni di euro per l’intero 2021. La grande crescita negli ultimi potrebbe comunque aver portato cambiamenti strutturali nel settore, che potrebbe ripartire quando la situazione globale si rasserenerà. “Il fintech è quello che negli ultimi anni è cresciuto più velocemente e ha attratto più capitale, e quindi potenzialmente è quello che potrebbe attrarne ancora“, aggiunge Fusaro.
(Foto: Towfiqu barbhuiya on Unsplash)