(Teleborsa) – La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha presentato questa settimana il piano industriale per il Green Deal, la risposta europea all’Inflaction Reduction Act che con quasi 370 miliardi di euro ha deciso di puntare sull’industria green tech del Nord America per contrastare il dominio cinese. Una decisione che rischia di spiazzare però quella europea, lasciandola indietro nella corsa alla transizione. Uno dei settori maggiormente interessati dalla partita è quello dell’automotive e in particolare quello dell’auto elettrica che si troverebbe costretto a delocalizzare i propri impianti oltreoceano per accedere al grande programma di incentivi disegnato a Washington.
Se tutti a Bruxelles sono convinti della necessità di una risposta, le modalità di finanziamento del piano industriale europeo restano il principale argomento di discussione. La Commissione europea ha proposto di allentare le restrizioni sugli aiuti di Stato ma tale soluzione rischia di favorire solo chi può permettersi di fare altro debito – sicuramente la Germania, sicuramente no l’Italia – mentre ha rimandato alla prossima estate ogni decisione sulla creazione di un Fondo Sovrano Europeo finanziato con debito comune europeo, sul modello del Recovery Plan.
A tal riguardo la ong ambientalista Transport & Environment ha pubblicato un rapporto che traccia la rotta da seguire per raggiungere un’indipendenza europea nell’industria green tech auspicando che il fondo possa contare su almeno 350 miliardi di euro e che trovi “una cabina di regia” proprio a Bruxelles per assicurare che le risorse siano spese in maniera mirata e soprattutto celere. “L’idea – spiega Veronica Aneris, direttrice della divisione di Transport & Environment in Italia – non è quella di bypassare gli Stati membri, quanto di assicurarsi che quei soldi vengano usati in settori strategici, in tempi e modi utili e rispettando un criterio di equità tra gli stati membri. Se lo scopo è quello di creare una fiorente industria europea della mobilità elettrica, è necessario prima di tutto che il perimetro entro cui utilizzare i fondi sia chiaro e circoscritto alle soluzioni di decarbonizzazione più mature ed efficaci”.
Quale dovrebbe essere quindi secondo voi il sistema di governance alla base del nuovo piano industriale europeo?
A nostro avviso la risposta europea deve rispettare quattro criteri chiave. In primis deve “specchiare” l’IRA statunitense, ovvero rispondere in maniera simmetrica agli incentivi dell’amministrazione Biden. In parole semplici: investire su sistemi di accumulo, veicoli elettrici, rinnovabili. Non un centesimo altrove: per evitare inutili distorsioni e garantire che vi sia una risposta davvero mirata. Per fare questo, il secondo criterio deve essere quello della semplicità. Non possiamo permetterci nuovamente barriere e ostacoli burocratici; i fondi disponibili dovranno andare a sostenere la produzione in maniera quanto più possibile diretta. Premiare la produzione effettiva, come fa l’IRA, è quindi il terzo criterio: non possiamo incentivare la realizzazione di stabilimenti, o peggio di progetti pilota e di incubatori. Va premiato il prodotto finale – ad esempio le batterie – come fanno gli USA. Così si sostiene attivamente anche la dinamica di un’economia di scala, per abbattere i prezzi delle nuove tecnologie, con un beneficio concreto per i cittadini. Infine, serve una cabina di regia a livello europeo che garantisca efficienza, ma anche equità. Una politica di finanza pubblica dell’Unione deve avere come effetto quello di minimizzare le disuguaglianze economiche e industriali tra gli stati, non di ampliarle o aggravarle.
Il Fondo Sovrano Europeo potrebbe essere costruito utilizzando un modello di finanziamento già sperimentato con il Recovery Plan per rispondere alla crisi economica post pandemia. Il vostro giudizio sul PNRR italiano è stato molto critico, in cosa dovrebbe differenziarsi questo nuovo fondo?
C’è una differenza fondamentale tra quello strumento e ciò di cui parliamo oggi: non stiamo più ragionando di contrastare una crisi generalizzata dell’economia europea, ma di rispondere alla “parte greentech” dell’IRA statunitense, che rischia di attrarre gran parte della produzione che vorremmo invece in Europa. L’Italia è stata il maggiore beneficiario del Recovery Plan. Sebbene fossimo gravemente in ritardo, rispetto agli altri player europei, nel processo di riconversione dell’industria automotive, alla mobilità elettrica sono andate poche briciole. Si è mancato di comprendere fino in fondo l’importanza strategica di questo settore. Se ora dovessero arrivare nuovi fondi, sarà fondamentale scongiurare il rischio di ripetere lo stesso errore.
Il mercato italiano dell’auto elettrica stenta a decollare. In Italia lo scorso anno le vendite di auto BEV, le elettriche pure, sono state meno di 50mila, in calo del 27,1% rispetto al 2021. La quota di mercato è scivolata sotto al livello della Spagna (3,7%) mentre in Germania e Francia le auto elettriche sono ormai una realtà consolidata (con quote di mercato rispettivamente del 18% e del 13,3%). Perché qui non riescono a prendere piede?
Siamo l’unico Paese che sta registrando trend negativi, il gap con gli altri partner europei sta diventando preoccupante. Siamo un caso unico, così come unico è il nostro programma di incentivi: l’Italia è la sola in Europa a finanziare l’acquisto di auto con motori endotermici ed emissioni fino a 135 g/km di CO2. Insomma, sosteniamo la tecnologia che dovremmo sostituire, ovviamente con i soldi dei contribuenti. La mancanza di una direzione strategica appare evidente. Inoltre, i nostri incentivi sono disegnati male. Per fare un esempio: abbiamo un tetto di incentivo per le PHEV (le auto ibride plug-in) più alto che per le elettriche. Tra l’altro questo cap è uguale a quello per un’auto tradizionale, a diesel o benzina. Abbiamo definito regole del gioco, meccanismi di concorrenza tra le diverse tecnologie, affatto eque. Peraltro abbiamo sbagliato anche a individuare la platea beneficiaria di questi incentivi: con le misure introdotte lo scorso agosto, ovvero un aumento di sussidio per le famiglie a basso reddito, ci siamo rivolti a un settore della società che oggi molto difficilmente investirebbe decine di migliaia di euro per un’auto nuova.
Da dove partire quindi per recuperare il gap?
Innanzi tutto da una revisione della fiscalità dell’auto, e dell’auto aziendale in particolare. L’auto aziendale è un volano strategico per accelerare la transizione verso la mobilità elettrica. Dato rapido il turn over dei veicoli nelle corporate fleet, in 2-3 anni è possibile creare un ampio mercato dell’usato dell’auto elettrica. Sarebbe una risorsa concretamente efficace, consentirebbe a molti più cittadini di acquistare un veicolo elettrico. Naturalmente va rivisto anche il sistema di incentivi: non si possono continuare a sussidiare le auto diesel e benzina fino al 2024. È davvero un uso poco responsabile dei soldi dei contribuenti: si aggrava la crisi climatica, si peggiora la qualità dell’aria, si tiene il Paese inchiodato ai blocchi di partenza nella gara alla mobilità sostenibile. Una gara cui stanno partecipando tutte le grandi economie. Per capirci: negli ultimi due anni il governo italiano ha stanziato per l’acquisto di auto quasi le stesse risorse di quello tedesco, circa 2 miliardi. In Germania però circolano 5-6 volte le auto elettriche che circolano in Italia oggi. A Berlino sono stati molto chiari da subito: incentivi solo alle auto con la spina. Un’analisi delle migliori politiche nazionali europee ci dice che agendo su poche leve fiscali come la tassa d’acquisto, il fringe benefit per i dipendenti e la deducibilità, la risposta da parte dei mercati c’è. La nostra analisi sull’Italia mostra che questo genere di revisioni, se disegnate in maniera intelligente, può essere a costo zero per le casse pubbliche; ancor più, potrebbe persino far risparmiare soldi allo Stato.
Possono essere solo gli incentivi a determinare la domanda di auto elettriche?
Quelli sono determinanti. Se al contempo venisse meno la guerra di religione che, in Italia, alcuni combattono contro l’auto elettrica, sicuramente avremmo un’opinione pubblica più consapevole e informata, meno spaventata dalla transizione. Più propensa a cambiare i modi, le forme e le tecnologie della mobilità privata.
Questo dal lato della domanda. Per quel che riguarda invece il lato dell’offerta, quella che dovrebbe direttamente beneficiare del piano industriale europeo per il Green Deal, dove sono i limiti del sistema Italia?
C’è in prima battuta un limite di “chiarezza”, lo definirei così. Quel che appare evidente a tutti i grandi gruppi dell’automotive, penso ad esempio a Volkswagen, in Italia è ancora oggetto di dibattito. Ebbene: la mobilità elettrica è la mobilità del futuro. Questo non dovrebbe più essere in discussione, è semplicemente un fatto acclarato. Quando ragioniamo di salvaguardia dei posti di lavoro, quindi, dovremmo farlo a partire da qui e chiedendoci quale ruolo vogliamo giocare nel futuro prossimo, anzi immediato, dell’automotive. L’Italia si sta muovendo con ritardo, ma c’è anche ancora tanto potenziale da catturare nella catena di valore dell’automotive europeo. Si pensi alla raffinazione del litio,, al mining urbano, al remining, alla circolarità delle batterie. Siamo stati pionieri nello sviluppare filiere industriali del riciclo, è un terreno sul quale potremmo competere. Ma per farlo efficacemente, dobbiamo capire quali sono le competenze che ci servono per costruire asset distintivi, per posizionarci strategicamente sul mercato. E individuare i lavoratori cui destinare programmi di formazione, o ri-formazione, per creare quelle competenze Infine, serve accelerare i processi e creare un quadro regolatorio solido e coerente per la mobilità elettrica, per attrarre investitori stranieri. Indugiando nella situazione attuale, resteremo davvero poco attrattivi, ai margini di una grande rivoluzione industriale.