(Teleborsa) – Imballaggi in plastica, gestione di autostrade, estrazione di idrocarburi, trasporti aerei, ma soprattutto specialità e materie prime farmaceutiche. Sono i settori, con un’alta concentrazione di grandi imprese, che nei pagamenti fanno il buono e il cattivo tempo: negoziano condizioni più vantaggiose ma pagano ugualmente con maggiore ritardo, mettendo in difficoltà le società medio-piccole. È così che i tempi medi di pagamento delle imprese italiane nel primo trimestre 2023 sono cresciuti di 1,6 giorni (da 65,2 a 66,8) rispetto al primo trimestre 2022, fenomeno che ha interessato tutta la Penisola: questo risultato infatti è la combinazione dell’allungarsi dei termini medi concordati in particolare dalle grandi imprese (+1,4 giorni) e del riacutizzarsi dei giorni di ritardo delle altre classi dimensionali (+0,2), un trend ripartito a fine 2022 dopo un anno in costante calo. È quanto emerge da un recente studio di Cerved sulle abitudini di pagamento delle imprese italiane (tempi concordati, distribuzione dei ritardi, mancati pagamenti).
Sfruttando il loro peso negoziale, i colossi hanno ottenuto di pagare in media a 70,6 giorni concordati contro i 64,8 dello scorso anno (ben di più dei 58,2 attuali delle PMI e i 43 delle micro), a cui ne aggiungono 11 di ritardo, mentre le imprese di minori dimensioni, che subiscono fortemente questa politica dilatoria, vedono al contrario un irrigidirsi delle scadenze: ciò si traduce in una mancanza di liquidità che sfocia non solo in maggiori ritardi (+0,5 giorni rispetto al primo trimestre 2022) ma sempre più spesso in mancati pagamenti.
“Le abitudini di pagamento sono un termometro importante da monitorare per cogliere tempestivamente possibili segnali d’allarme – commenta Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved –. La congiuntura economica che stiamo attraversando, caratterizzata da alta inflazione e rialzo dei tassi di interesse, ha generato un deterioramento dei fondamentali finanziari delle imprese: il conseguente il calo della domanda, l’aumento dei costi, la frenata della redditività e la riacutizzazione del rischio hanno portato, da un lato, a rinegoziare i tempi di pagamento, dall’altro, dove questo non è stato possibile, ad aumentare i ritardi e le insolvenze”.
Il macrosettore che più ha allungato i tempi di pagamento è l’industria (+4 giorni, da 65,9 a 69,9) e ciononostante ha visto crescere pure i ritardi (+0,4, da 6,9 a 7,3). Anche nelle costruzioni aumentano i giorni di ritardo (+1,6, da 9 a 10,6) e, a fronte di un netto accorciarsi delle scadenze (-2,3 giorni), le imprese insolventi. Nei servizi, dove prevalgono le micro imprese, i tempi di pagamento sono strutturalmente più bassi (dai 10 ai 20 giorni in meno rispetto a costruzioni e industria) e nonostante questo i ritardi sono in lieve ma costante calo.
Allungamenti e ritardi nelle aree geografiche e nei settori – Rispetto al primo trimestre 2022, nello stesso periodo del 2023 i giorni di pagamento concordati sono in crescita in tutte le aree geografiche (dal +0,8 del Sud al +1,7 del Nord Ovest) mentre i ritardi, oltre a essere più consistenti, aumentano solo al Centro (+0,7) e nel Mezzogiorno (+0,6). La quota di mancati pagamenti, invece, sale in tutte le aree (dal +0,2 del Nord Ovest al +0,7 del Nord Est) tranne che al Centro (-0,2). Per quanto riguarda i settori, si riscontra un notevole allungamento delle scadenze pattuite nei settori energivori, che molto hanno risentito dell’aumento vertiginoso dei prezzi dell’energia e di alcune materie prime: le imprese per la raffinazione di prodotti petroliferi pagano a quasi 80 giorni in più rispetto al 2022, quelle che producono accumulatori e batterie a oltre 61, le aziende cartarie e siderurgiche a circa 50. I ritardi, invece, sono cresciuti maggiormente nell’allevamento dei bovini (quasi 10 giorni in più fuori scadenza), nei trasporti aerei e nei servizi di vigilanza (circa 9), nelle radio e tv (7,3), nell’estrazione di idrocarburi e nella produzione di conserve ittiche (6,5).
La distribuzione dei mancati pagamenti – In Italia, circa 1 pagamento su 10 non viene onorato (9,7%, +0,3%): nelle micro e nelle PMI questo fenomeno è salito rispettivamente del +0,5% e +0,8%, mentre nelle grandi la quota, pari alla media italiana, è rimasta stabile. Come macrosettori, l’aumento più marcato si rileva nelle costruzioni (da 12% a 13%), che ha anche la percentuale più alta di insolvenze: la più bassa è nell’industria, 7,9% (+0,5%), i servizi si attestano a 9,7% (+0,2%). Dal punto di vista geografico, i mancati pagamenti sono in crescita in tutte le aree – da 6,8% a 7,5% nel Nord Est, da 8,8% a 9% nel Nord Ovest, da 13,1% a 13,7% nel Mezzogiorno – tranne che al Centro, da 11% a 10,8%. Rispetto ai settori, quelli in maggiore sofferenza sono l’allevamento dei bovini (56,4% di mancati pagamenti, +46,5% sul primo trimestre 2022), la produzione di motori non elettrici (28,2%, +12,6%), l’industria discografica (20%, +10,4%), le agenzie di pubblicità (43,6%, +10,1%), la distribuzione locale di energia (15,2%, +8,3%), l’editoria di quotidiani e periodici (31,4%, +8,2%), mentre performano bene l’industria ferrotranviaria (18% di mancati pagamenti, -12,8% rispetto al primo trimestre 2022), la produzione di maglieria e biancheria intima (11,8%, -12,6%), i trasporti ferroviari (43,%, -12,5%), gli autonoleggi (5,4%, -8,6%), la carta per uso domestico (3,8%, -7,1%).