(Teleborsa) – Nonostante la severità e la pervasività dell’impatto della crisi energetica, a fine 2022, le imprese italiane non intravedevano seri rischi operativi per la propria attività, almeno in relazione al primo semestre del 2023. Lo rileva il Rapporto sulla competitività dei settori produttivi diffuso dall’Istat dal quale emerge che a fine 2022 il 50,2% delle unità della manifattura e il 58,9% di quelle dei servizi ritenevano “solida” l’attività della propria impresa, e il 36,3 e il 26,4% la riteneva “parzialmente solida”; a fine 2022, si riteneva seriamente o parzialmente a rischio circa il 10% delle imprese di entrambi i comparti.
Tra i nove comparti con una quota di imprese solide o parzialmente solide superiore alla media nazionale troviamo alcuni dei principali settori del Made in Italy e del modello di specializzazione italiano: macchinari, automobili, altri mezzi di trasporto, bevande, pelli. Al contrario, nei comparti di alimentare, tessile e abbigliamento, legno e mobili la quota di unità che si considera solida è inferiore rispetto alla media della manifattura, e particolarmente esigua nel comparto della stampa. Nel terziario, invece, diffusa percezione di solidità tra le unità dei servizi di informazione e comunicazione (oltre il 73%), mentre la maggiore percentuale di imprese a rischio e parzialmente a rischio si riscontra nei servizi alle imprese e negli altri servizi (composti prevalentemente da attività di servizi alla persona).
Le imprese manifatturiere hanno reagito agli shock sui prezzi dei beni energetici e intermedi aumentando i prezzi di vendita (in misura pari al 60% delle imprese colpite dal lato dell’approvvigionamento energetico e al 67% di quelle interessate da aumenti di costi di prodotti intermedi); le imprese più grandi hanno fatto ampio ricorso anche alla rinegoziazione dei contratti. L’aumento dei prezzi è stato superiore alla media manifatturiera nei comparti di alimentari, bevande, tessile, carta, gomma e plastica, mentre risulta relativamente meno praticato nell’abbigliamento, nel coke e raffinazione, nella farmaceutica e nei mezzi di trasporto (ad esclusione degli autoveicoli). In questi ultimi settori (con l’eccezione dell’abbigliamento), appare più frequente la riduzione dei margini di profitto. Nel terziario l’aumento dei prezzi di vendita è stato meno diffuso (è stato utilizzato da poco più del 30% delle unità, ma in quelle del turismo la quota supera il 56%); si è fatto invece maggiormente ricorso alla riduzione dei margini di profitto (46,5%), al risparmio energetico e alla ricerca di autosufficienza energetica
Dal report emerge che rispetto a inizio 2022, il margine operativo lordo (Mol) è diminuito per oltre la metà delle unità della manifattura; nel 5% dei casi essi sono divenuti negativi; il 30,9% delle imprese è riuscito a salvaguardare i margini, l’8,8% li ha addirittura aumentati. La quota di imprese il cui Mol si è ridotto supera il 50% in 18 comparti su 23, con picchi particolarmente elevati nei mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli (81,4%) e nelle bevande (72,1%); le uniche eccezioni sono Coke e raffinati, Prodotti da minerali non metalliferi, Elettronica, Altre manifatturiere.