(Teleborsa) – Nonostante la pandemia da Covid-19, e le restrizioni imposte in tutto il mondo, abbia portato a una delle recessioni più profonde dalla Grande depressione del ’29, nel 2020 i default di grandi aziende sono sì aumentati, ma in misura minore rispetto alle recenti recessioni. Lo segnala un report di S&P Global Ratings, che sottolinea anche come i downgrade siano invece aumentati notevolmente, fino a quasi un massimo storico.
La società americana evidenzia che default e downgrade sono stati in larga misura limitati alle categorie di rating più basse, risultando nel complesso in una performance solida per i rating nel 2020. L’anno scorso si è registrato un tasso di upgrade eccezionalmente basso (2,8%) e uno dei più alti tassi annuali di downgrade (18,5%). Questo ha portato il rapporto downgrade-to-upgrade a un nuovo massimo del 6,6%.
In linea con il 2019, quasi il 54% dei default nel 2020 è stato in due settori: servizi ai consumatori ed energia e risorse naturali (con 122 default in totale). Tuttavia, i fallimenti sono aumentati anche nella maggior parte degli altri settori. In particolare, in sette ambiti i tassi di default del 2020 hanno superato le loro medie storiche: tempo libero/media, trasporti, telecomunicazioni, sanità/prodotti chimici, immobili, servizi pubblici e alta tecnologia/computer/apparecchiature per ufficio.
Delle 198 società che sono entrate in default nel 2020 e che sono state valutate all’inizio dell’anno, evidenzia S&P, tutte tranne 12 si trovavano nella categoria “B” o inferiore, e il 57% era nella categoria “CCC”/”C”. Nel 2020, le categorie di rating speculative-grade hanno avuto tassi di insolvenza più elevati rispetto al 2019, con un aumento della categoria “BB” allo 0,93% dallo 0%, categoria “B” al 3,5% dall’1,5% e “CCC” / “C” categoria al 47,5% dal 29,8%.
Dei 226 default nel 2020 (nel 2009 sono stati 268, nel 2001 invece 229), la maggioranza (146) è stata in società negli Stati Uniti o in paradisi fiscali associati (Bermuda e Isole Cayman). L’Europa ne ha registrati 42 valori, i mercati emergenti 28 e altri Paesi non-emergenti (Australia, Canada, Giappone e New Zelanda) soltanto 10.