(TELEBORSA) – “Non passerò alla storia come il leader che ha venduto Gerusalemme”. Con queste parole, tutt’altro che sibilline, Abu Mazen ha rispedito al mittente il piano di pace proposto da Trump per il Medio Oriente e accolto con entusiasmo da Netanyahu è irricevibile: il Presidente dell’Autorità nazionale palestinese ha anzi annunciato la rottura di ogni relazione con Israele e gli Stati Uniti, e la sospensione di tutti gli accordi.
Il no netto alla proposta americana da parte di Abu Mazen e del mondo arabo era arrivata subito dopo la sua presentazione. Due i punti principali condivisi da Trump e Netanyahu: due Stati e Gerusalemme capitale indivisa d’Israele. Ma Abu Mazen, intervenendo alla riunione straordinaria convocata dalla Lega Araba al Cairo per discutere del piano, ha ribadito il suo rifiuto al cosiddetto ‘Accordo del secolo’, definito ”senza alcuna logica”.
“Peace to Prosperity”, dunque, non sembra aver riscosso il successo sperato. Perché?
Teleborsa ne ha parlato con Giuseppe Dentice, Cultore della Materia in “International History – The Wider Mediterranean”, Università Cattolica Milano e Associate Research Fellow, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI).
” Il piano dovrebbe essere un’ipotesi di lavoro dalla quale partire per negoziare, mentre invece si presenta come un accordo definito da una singola parte (Israele), con l’appoggio statunitense, nel quale non si intravedono grandi possibilità di trattative. In sostanza è un accordo quasi definito nel quale le parti (e nella fattispecie i palestinesi), o accettano tout-court quel che si presenta sul tavolo negoziale o anche se rifiutassero potrebbero trovarsi dinanzi alla decisione unilaterale israeliana di annettere i territori della West Bank. In questo senso non può accontentare una parte, quella palestinese, che, al di là della scelta intrapresa (ossia il rifiuto di negoziare), rimane debole e senza alcun appoggio politico esterno, neanche del mondo arabo, più interessato a far cessare l’atavica tensione israelo-palestinese a fronte delle tensioni intra- e trans-regionali sempre più rilevanti nelle agende politiche dei singoli paesi.
Questo atteggiamento non muta neanche difronte alla posizione ufficiale tenuta dagli stessi paesi della Lega araba che, seppur abbiano rigettato ufficialmente il piano Trump, ufficiosamente si sono spesi anche poche e precise dichiarazioni con aperture significative.
Questa doppiezza risponde ad una doppia dimensione: da un lato vi è quella pubblica e domestica ai singoli paesi, nelle quali sono presenti forti ritrosie in termini di opinione pubblica a fare concessioni agli israeliani; dall’altro quella politica e diplomatica delle élites, interessate a dare vita ad un nuovo corso multilaterale con Israele in funzione, principalmente, anti-iraniana.
Uno dei due grandi capitoli è senza dubbio quello economico. Se dovesse arrivare il sì dei palestinesi avranno 50 miliardi di dollari per 10 anni in investimenti internazionali con ripercussioni su PIL e occupazione. Può illustrarci di cosa si tratta nel dettaglio e di che numeri stiamo parlando? Da dove dovrebbero arrivare le risorse?
” Anche in questo caso, le disposizioni economiche risultano vaghe. Oltre ai 50 miliardi di dollari in dieci anni, miranti a favorire uno sviluppo palestinese, il documento di 181 pagine cita come punti chiave dell’accordo economico la creazione di più di 1 milione di nuovi posti di lavoro, il raddoppio del PIL palestinese, la riduzione della disoccupazione al di sotto del 10% e il dimezzamento del tasso di povertà (pari oggi al 29,2% della popolazione totale secondo i dati del Central Bureau of Statistics palestinese).
Al di là dei numeri, anche eclatanti, non si spiega bene come e dove verranno investiti questi fondi, sotto quale forma di assistenza verranno usati (prestiti, aiuti, donazioni) e, soprattutto, non si sottolinea chi sia il soggetto o i soggetti pubblici, privati o internazionali autorizzati ad agire. Non si spiega se siano stati o organizzazioni regionali a dover gestire e finanziare questo pacchetto da 50 miliardi di dollari.
Il tutto senza affrontare i problemi estremi esistenti nei territori in questione: dalla situazione umanitaria al collasso socio-sanitario nella Striscia di Gaza, passando per la libertà di circolazione dei palestinesi in Cisgiordania. L’intero accordo finale non riconosce in maniera chiara il ruolo che potranno assumere i palestinesi nella gestione economica e su quali territori far valere queste azioni. Potenzialmente potrebbe essere anche vantaggioso ma non se ne capiscono in maniera chiara i confini esecutivi. Anche in questo caso emergono chiaramente gli interessi (per lo più di sicurezza, anche economica) israeliani, ma non quelli palestinesi”.