(Teleborsa) – E’ polemica sul MES o, detto all’europea, ESM – European Stability Mechanism, dopo le accuse rivolte dall’opposizione al Governo Conte ed, in particolare, al Ministro Gualtieri, per aver pregiudizialmente “accettato”, ma non “attivato”, il Fondo salva-Stati quale strumento principe per gli aiuti durante l’emergenza sanitaria e per contribuire alla ripresa post crisi, cedendo alle pressioni di Olanda e Germania che non volevano gli Eurobond. Scambi di accuse, spesso improprie, anche sulla “paternità” del MES, sono arrivati da una parte e dall’altra, con molte verità non dette.
Sarebbe opportuno allora capire cosa è il MES “attuale” e come è nato originariamente, giacché questo strumento oggi ha cambiato veste rispetto all’uso per cui era stato concepito.
IL MES “LIGHT” DELLA CRISI SANITARIA
Il MES “leggero” di oggi non avrebbe nulla a che vedere con il MES di ieri, per un carattere particolare, la “condizionalità”. In pratica, il Paese che deciderà di “attivarlo” (e ciò non è mai avvenuto automaticamente e senza una specifica trattativa), non dovrà più sottostare alle condizioni e ai controlli che erano previsti per il MES.
Qualcuno si ricorda della Troika? Era la task force di specialisti formata da FMI, BCE e Commissione europea – in pratica coloro che mettevano il denaro per gli aiuti – che si occupava di monitorare lo stato di avanzamento degli impegni assunti all’atto della firma di quel contratto di finanziamento, il MES “attivato” per l’appunto. Un contratto come un altro, del tipo: ti do il denaro e tu ti impegni a risanare il debito, portare avanti certe riforme e così via.
Ora non sarà più così, l‘attivazione del MES “light” avrà un’unica condizione: impiegare quelle risorse per combattere l’epidemia di Covid-19 e più specificamente per le spese sanitarie (dirette ed indirette) e per i beni e servizi ad esse collegati.
Perché usare il MES? In questo momento era forse lo strumento migliore, già costituito e dotato delle risorse necessarie (oltre 550 miliardi) pronte all’uso. Diverso il discorso per gli Eurobond, ovvero per titoli di debito “comuni” da emettere assieme, aggregando i rispettivi bilanci e facendo un passo avanti nella costruzione di quel progetto Europa che non è solo unione monetaria, economica e bancaria, ma anche fiscale e politica. Un percorso lungo e tortuoso, che forse si rivela prematuro anche durante una crisi sanitaria come non si era mai vista prima.
COME E’ NATO IN ORIGINE IL MES E QUANDO?
Su questo punto sono state dette molte scorrettezze, ma per chi ha un po’ di memoria storica è facile ricostruire il percorso lungo e doloroso che portò alla creazione di questo strumento, inizialmente battezzato Fondo salva-Stati. Correva l‘anno 2010, la crisi finanziaria, nata in USA nel 2008, era sfociata in Europa come crisi debitoria, attaccando i Paesi più fragili economicamente e con un debito pubblico più sbilanciato.
Qualcuno ricorda di aver sentito nominare i PIGS? Erano Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, cui solo in un secondo momento si aggiunse l’Italia, trasformando la sigla in PIIGS. Molti di questi Paesi avevano già chiesto prestiti precedentemente alla comunità economica internazionale, senza cambiare nulla, arrivando dopo qualche mese a chiedere nuovi prestiti e nuovi aiuti. La speculazione era all’attacco e non risparmiava nessuno: i mercati finanziari fibrillavano, preda di una volatilità mai vista, gli Spread salivano incessantemente, sotto l’attacco speculativo, segnalando il crescere di una rischiosità autoindotta dall’eccessiva esposizione di bilancio (il debito pubblico).
La crisi del debito in Europa era entrata nel vivo ed i leader europei decisero quindi di trovare uno strumento che facesse da scudo contro la speculazione, rassicurando i mercati con risorse certe e disponibili per gli Stati membri. Nacque dapprima uno strumento temporaneo, l’ESFS – European Financial Stability Facility, dotato di risorse limitate; in seguito venne alla luce anche l’ESM o Fondo salva-Stati, un meccanismo “permanente”, dotato di risorse adeguate, concepito a fine 2010 e venuto formalmente alla luce nel marzo 2011. Il suo scopo era consentire agli Stati membri di accedervi in caso di difficoltà.
Ma dal momento che gli aiuti precedenti erano stati concessi quasi a fondo perduto, senza risanare le fragilità del Paese entrato in crisi, i leader europei decisero di sottoporre questo strumento a delle “condizionalità”, le riforme ed il risanamento di bilancio, e ad una specifica vigilanza, quella della Troika, per accertare che gli impegni fossero effettivamente applicati. Una scelta che sembrò quanto mai opportuna per rassicurare tutti gli Stati sulla efficacia degli aiuti concessi. In Italia era ancora l’epoca del Governo Berlusconi (ancora per poco) e l’allora Ministro dell’Economia Giulio Tremonti giudicò l’accordo soddisfacente per assicurare il successo dell’iniziativa. Chi avrebbe potuto pensare il contrario all’epoca?
Il Fiscal Compact, o accordo sul risanamento e pareggio di bilancio, arrivò subito dopo: si era già nell’era del Governo Monti, quando per la prima volta si parlò di regole di bilancio più rigide, di una revisione dei Trattati istitutivi dell’Unione Europea e di unione fiscale ed Eurobond. Era il 2012 e nessuno pensava che, nel 2020, i leader europei si ritrovassero a fare a braccio di ferro per gli Eurobond (o Coronabond come oggi ci piace chiamarli).
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