(Teleborsa) – Le quotazioni di oro nero continuano a subire l’effetto combinato dei timori legati alla crescita dell’economia globale a causa dell’escalation della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina e dell’aumento della produzione americana. Fattori negativi che hanno innescato una fuga dagli asset più rischiosi, a dispetto delle politiche di stimolo messe in campo dalle banche centrali.
A peggiorare la situazione ci sono stati altri eventi scatenanti il cambiamento repentino dei movimenti nel prezzo del greggio: West Texas Intermediate e Brent, il greggio di riferimento del Mare del Nord. Come l’attacco contro le petroliere che transitavano nel Golfo Persico, in prossimità dello Stretto di Hormuz. La reazione delle quotazioni riflette la rilevanza che l’area in cui sono avvenuti questi nuovi attacchi ha per il settore del petrolio. Dallo stretto di Hormuz, infatti, transitano ogni giorno quasi 17 milioni di barili, quasi un terzo del traffico marittimo totale di oro nero, che sfiora i 53 milioni di barili al giorno.
A ciò si aggiunge l’episodio dell’abbattimento del drone USA da parte dell’Iran, definito dal Presidente statunitense Donald Trump “un errore gravissimo“. Se infatti il possibile intervento dell’esercito a stelle e strisce non dovesse compromettere le esportazioni di petrolio, sicuramente porterebbe a pagarle ad un prezzo maggiorato. Già adesso, l’instabilità provocata dalla paura di nuovi attentati, vede innalzarsi tutta una serie di costi ad esso legati.
Infine a non rendere il periodo più leggero vi sono anche gli indirizzi di politica monetaria palesati in questa settimana finanziaria da parte della Federal Reserve. La decisione di ipotizzare un taglio futuro dei tassi ha indebolito il dollaro e i rendimenti dei Treasuries, favorendo inversamente quelli delle materie prime.
Il mercato del petrolio, in particolare – sottolinea uno studio di Koen Straetmans, Senior Strategist Multi Asset di NN Investment Partners – sconta un alto livello di scorte ed una domanda che ristagna, mentre si guarda al prossimo vertice OPEC del 25 giugno come un’ancora di salvezza per le quotazioni del barile.
“Il gruppo OPEC+ (gruppo formato dai Paesi del cartello e altri come la Russia, Ndr) dovrebbe mantenere un atteggiamento attendista fino alla riunione a fine mese, continuando a rispettare l’accordo sul taglio della produzione. Inoltre, il comitato ministeriale misto di controllo del gruppo ha annunciato nella riunione di Geddah che intende prorogare l’accordo nella seconda metà dell’anno. La riunione dell’OPEC di fine mese sarà interessante, non solo per quanto riguarda l’estensione dell’accordo sulla riduzione di output fino a fine anno, ma anche per quanto riguarda le dimensioni del taglio. Molto dipenderà dalla situazione del mercato in quel momento e dalle ulteriori ricadute della mancata proroga delle deroghe iraniane. Sembra ora probabile che l’Arabia Saudita aumenterà con cautela la produzione petrolifera”.
“Per quanto riguarda il mercato petrolifero – sottolinea l’analista – le previsioni sulla domanda sono state finora ridotte solo marginalmente, fino a livelli di crescita ancora dignitosi di circa 1,2-1,3 milioni di barili al giorno nel 2019, ed i mesi estivi sono la stagione in cui la domanda di norma è forte. Tuttavia, a seguito delle crescenti tensioni geopolitiche, hanno iniziato a manifestarsi le preoccupazioni per un indebolimento della domanda petrolifera, con conseguente correzione dei prezzi del greggio nel mese di maggio. Ciononostante, l’impatto sull’offerta dovrebbe superare l’effetto della domanda, sostenendo i prezzi”.
Goldman Sachs non vede fiammate delle quotazioni che potrebbero portare le quotazioni del greggio a scavalcare la soglia dei 60-70 dollari al barile. Tuttavia avverte che alcune situazioni di incertezza, come gli scontri in Libia, le sanzioni statunitensi sul Venezuela, la riunione di fine giugno dei Paesi OPEC e non OPEC che dovrà riesaminare il patto di riduzione della produzione, potrebbero condizionare l’offerta e di conseguenza determinare l’andamento dei prezzi dell’oro nero.
“Abbiamo registrato un quarto trimestre particolarmente negativo, quindi a questo punto c’è da capire quanto abbiamo recuperato finora”, ha detto Jeff Currie numero uno sulle materie prime di Goldman Sachs. “In un’ottica più di largo respiro, non riteniamo che torneremo ancora a quei livelli, sopra gli 80 dollari, anche se registreremo ancora qualche rialzo”. Di riflesso, ha aggiunto Currie, “ci attendiamo rialzi a 70-75 dollari il barile” con possibili ritorni nella fascia dei 60 dollari a causa di tre fattori: la crescita degli oleodotti negli Stati Uniti, la possibile fine dei tagli alla produzione da parte dell’OPEC e l’offerta crescente dai Paesi non facenti parte del cartello (non OPEC). Si tratta di elementi “che manterranno i prezzi nella parte bassa del range”.
Per Stefan Scheurer, Director Global Capital Markets & Thematic Research di Allianz Global Investors “è interessante osservare i mercati delle commodity”. Sebbene il recente aumento delle scorte USA (al livello più alto da luglio 2017) abbia placato i timori di una possibile mancanza di offerta, “l’intensificarsi delle tensioni commerciali fra Stati Uniti e Cina potrà lasciare una traccia sulla crescita globale. Le materie prime, in particolare il petrolio, sono sotto pressione a causa di un possibile calo della domanda e le attese di inflazione USA basate sul mercato per i prossimi cinque anni sono ulteriormente peggiorate”.